Menù

Teleste di Selinunte

E' il poeta ditirambico di Selinunte vissuto tra il V e il IV secolo a.C. Quasi niente sappiamo della sua vita. Apprendiamo da Diogene Laerzio che era siciliano e dal Marmor Parium che vinse una gara poetica ad Atene nel 402-401. Dei suoi ditirambi sono sopravvissuti solo pochissimi frammenti.

Testo, edito dal Page, di un frammento

Il ditirambo (in greco διθύραμβος) era, nell'antica Grecia, un canto corale in onore del dio Dioniso. Il termine ditirambo compare per la prima volta nel frammento 77 di Archiloco che lo indica come quel "canto a Dioniso" che viene intonato sotto l'ispirazione del vino. Nel VII secolo a.C. Arione di Metimna lo dispone secondo un preciso schema facendolo intonare da un coro. Laso di Ermione lo trasferisce da Corinto ad Atene facendolo entrare negli agoni in onore di Dioniso, dove sembrerebbe attestato che il primo vincitore fosse Ipodico di Calcide. A partire dal VI secolo a.C., tale componimento religioso fu quindi seguito da importanti poeti come Simonide, Pindaro e Bacchilide. Ha una rilevante importanza concettuale poiché è una "forma-lancio", se così la possiamo definire, che prepara, o meglio genera, a quelle che saranno la tragedia e la commedia. Infatti verrà eseguito in senso "scenico", ad Atene, per la prima volta ad opera di un poeta "girovago" greco Tespi; ma solo in seguito, quando cioè Eschilo (nell'età "Aurea"), lo adatterà maggiormente al teatro con dialogo e azione (aggiungendo "attori" e "scene") nascerà la tragedia greca vera e propria. Si trattava di una composizione poetica corale, dove poesia, musica e danza erano fusi insieme e tutti e tre indispensabili in ugual misura. Il ditirambo era una danza collettiva eseguita in circolo da cinquanta danzatori incoronati da ghirlande. Era una danza drammatica e rapida, nella quale il solista rappresentava lo stesso Dioniso, mentre i coreuti lo accompagnavano con lamentazioni e canti di giubilo. Il Ditirambo accompagnava anche i cortei (pompè) di cittadini mascherati che, in stato d'ebbrezza, inneggiavano a Dioniso suonando flauti e tamburi. Il ditirambo infatti era costituito da cori accompagnati dal suono di questi strumenti; un suono cupo, poco melodico, ma di profonda potenza, furente, che accompagnava alla perfezione il corteo barcollante di uomini mascherati: alcune feste a Dioniso infatti presupponevano il totale mascheramento, con pelli di animali e grandi falli; le Menadi, seguaci dirette del Dio, portavano il Tirso, un bastone con in cima o un ricciolo di vite o una pesante pigna. Aristotele, nella Poetica, afferma che esso diede origine alla tragedia. Secondo la tradizione il ditirambo venne inventato nella città di Corinto da Arione di Metimna (c. 625 - c. 585 a.C.), e da Corinto si diffuse in tutto il mondo greco insieme alla diffusione del culto di Dioniso. Il ditirambo attrasse poeti di valore come Pindaro, Simonide e Bacchilide, e dal VI secolo a.C. divenne oggetto di competizioni nell'ambito delle feste dedicate a Dioniso. Tra i poeti lirici greci il riconosciuto precursore di codesto genere fu Malanippide, e tra i seguaci, oltre a Teleste, si ricorda Timoteo di Mileto.

 Il materiale arrivatoci di Teleste consiste di soli otto frammenti e di tre titoli di componimenti perduti: Argo, Imeneo, Asclepio. Tali opere avevano già perduto al tempo di tali poeti la loro caratteristica di componimento religioso, e venivano composte per diletto ove la parte musicale pare avesse molta importanza, al punto di suscitare polemiche tra i vari autori per l'uso di questo o quello strumento. Da Ateneo apprendiamo che egli fu un valente danzatore:

"Telesis (o Telestes) pure insegnante di ballo, inventò molte figure, e con grande arte illustrò coi movimenti delle braccia ciò che con voce venia detto". (21 , e; op. cit.).

Da Plutarco abbiamo la conferma del valore dell'arte di Teleste: Alessandro Magno portava durante le sue spedizioni sempre con sè le opere del siciliano.
Come per ogni opera molto letta e molto diffusa, l'opera di Teleste venne criticata anche per motivi marginali, come nella scelta di un termine anziché un altro:

"' (...) però Teleste lo chiama un pinnace', ove Theopompus mette in ridicolo Teleste per aver denominato il phialé un pinnace". (Ateneo, 502; a).